DOMANDE FREQUENTI

FAQ

  • Quando si attraversa sofferenza emotiva, pensieri dolorosi, crisi relazionali, lutti o traumi, può essere utile chiedere aiuto a un professionista della salute mentale per ritrovare benessere e risorse.

    Quali sono le figure professionali e che differenze ci sono?

    Le principali figure sono psicologo, psicoterapeuta e psichiatra (professioni sanitarie regolamentate) e, in ambito non sanitario, counselor e coach. Si distinguono per formazione, competenze e tutele per il cittadino.

    Che cos’è lo psicologo?

    Lo psicologo ha una laurea magistrale in Psicologia, tirocinio, abilitazione ed è iscritto all’Ordine. Si occupa di prevenzione, valutazione/diagnosi, sostegno e interventi psicologici. È una professione sanitaria vigilata dal Ministero della Salute e soggetta a Codice Deontologico.

    Che cos’è lo psicoterapeuta?

    È uno psicologo (o medico) che ha anche una specializzazione quadriennale in psicoterapia riconosciuta dal MIUR. Oltre al sostegno psicologico, può curare con psicoterapia i disturbi psicologici di varia gravità. È iscritto all’albo e al registro degli psicoterapeuti.

    Che cos’è lo psichiatra?

    È un medico specializzato in Psichiatria. Si occupa di diagnosi e cura dei disturbi mentali e può prescrivere farmaci. Può fare psicoterapia se formato in tal senso. Anche lui è professionista sanitario vigilato dall’Ordine dei Medici.

    Counselor e coach sono equivalenti?

    No. Counselor e coach non sono professioni sanitarie e non hanno obbligo di laurea né iscrizione a un Ordine. Operano su ascolto, motivazione e supporto alle risorse, ma non possono fare diagnosi né trattamento psicologico o psicoterapeutico. Rientrano tra le professioni non regolamentate (L. 4/2013).

    Perché è importante rivolgersi a un professionista sanitario?

    Perché psicologo, psicoterapeuta e psichiatra hanno una formazione che consente valutazioni cliniche approfondite e diagnosi (anche di assenza di patologia), garantendo maggiore tutela e sicurezza nel percorso di cura o sostegno.

  • Andare dallo psicologo non significa “essere matti”: significa riconoscere una difficoltà e cercare un aiuto competente prima che il disagio diventi più grande o cronico. Lo psicologo e lo psicoterapeuta non si occupano solo di disturbi, ma anche di benessere, crescita personale, gestione dello stress e potenziamento delle risorse.

    Quando può essere utile?

    Ci si rivolge a un professionista soprattutto per due motivi:

    1. perché si sta male (ansia, tristezza, lutto, trauma, problemi relazionali, difficoltà genitoriali, sintomi fisici senza causa organica, ecc.);

    2. perché si sta abbastanza bene ma si vuole stare meglio, migliorando resilienza, equilibrio, performance o qualità della vita.

    Quali resistenze sono comuni?

    È normale avere dubbi o paure. Tra le obiezioni più frequenti:

    • “Col tempo passerà”: a volte è vero, ma se il blocco dura troppo serve un aiuto per evitare cronicizzazioni.

    • “Parlo col medico di base”: il medico è importante, ma lo psicologo ha competenze specifiche per la valutazione e il trattamento psicologico.

    • “Basta una pillola”: i farmaci possono aiutare, ma non risolvono da soli le cause profonde; la terapia attiva risorse e cambiamento.

    • “Ne parlo con amici o famiglia”: la rete affettiva è preziosa, ma non sostituisce il lavoro specialistico e a volte è parte delle dinamiche di sofferenza.

    Qual è il senso della terapia?

    La psicoterapia è una “cura tramite la parola”: aiuta a dare significato al dolore, integrare parti di sé negate o bloccate e ritrovare libertà personale. Superate le paure iniziali, il percorso può portare a maggiore consapevolezza, sollievo e benessere duraturo.

  • Un disagio psicologico si riconosce quando emozioni, pensieri o comportamenti iniziano a interferire con la vita quotidiana, il lavoro o le relazioni. Può manifestarsi con tristezza o ansia persistenti senza cause chiare, difficoltà relazionali ripetute, impossibilità di costruire legami, sintomi fisici senza spiegazione medica (es. insonnia, mal di stomaco), pensieri o azioni ripetitive e incontrollabili, oppure con un evento passato che continua a pesare e non si riesce a superare.

    Se questi segnali limitano il benessere e l’accesso alle proprie risorse, può essere utile chiedere una prima valutazione a uno psicoterapeuta. La psicoterapia aiuta a ridurre sofferenza e sintomi, affrontare problemi psicologici o relazionali e promuovere cambiamenti duraturi, non solo curando il disturbo ma anche sviluppando risorse e crescita personale.

  • La depressione è una malattia vera e propria, non una semplice tristezza o un “momento no”. Ha sintomi riconoscibili, un decorso specifico e può diventare molto invalidante nella vita personale, relazionale e lavorativa. Per questo è importante intervenire presto con una diagnosi accurata e un trattamento adeguato.

    Come si manifesta la depressione?

    I sintomi possono essere psichici e fisici.
    Sul piano psicologico compaiono umore triste e cupo persistente, perdita di interesse e piacere nelle attività (anedonia), senso di colpa o inutilità, disperazione e, nei casi più gravi, pensieri suicidari.
    Sul piano fisico possono esserci insonnia o risvegli precoci, cambiamenti di appetito e peso, calo del desiderio sessuale, rallentamento o agitazione psicomotoria, stanchezza intensa e perdita di energia.

    Esistono diversi tipi di depressione

    Non tutte le depressioni sono uguali: tra le forme più comuni ci sono distimia, depressione maggiore, depressione post-partum e disturbi bipolari. Ogni quadro va valutato in modo specifico per scegliere la cura più adatta.

    Cosa vive chi è depresso?

    Chi soffre di depressione sperimenta spesso perdita dello slancio vitale, immobilità, fatica anche nelle attività più semplici, mondo “senza colore”, senso di impotenza e inadeguatezza. A volte il dolore emotivo si esprime soprattutto nel corpo (dolori, disturbi del sonno o dell’alimentazione) o con vuoto mentale e difficoltà di concentrazione. Le relazioni possono diventare difficili e chiedere aiuto può apparire quasi impossibile.

    Diagnosi e cura

    La diagnosi deve essere fatta da un professionista sanitario (psicologo, psicoterapeuta o psichiatra). Spesso arriva tardi perché la depressione viene scambiata per tristezza passeggera o perché i sintomi fisici nascondono il malessere psicologico. La “buona volontà” da sola non basta, perché la mancanza di energia è parte del disturbo.

    La psicoterapia è un trattamento efficace per la depressione e può portare a miglioramenti duraturi; in molti casi può essere affiancata anche da terapia farmacologica, valutata dal medico/psichiatra.

  • L’ansia è un’esperienza comune e utile quando resta entro limiti tollerabili: funziona come “segnale di allarme” che prepara ad affrontare un pericolo. La paura riguarda un pericolo reale o percepito nel presente, mentre l’ansia è legata soprattutto all’anticipazione di un pericolo futuro. Quando però l’ansia diventa eccessiva, sproporzionata o non legata a un rischio reale e interferisce con la vita quotidiana, può trasformarsi in un disturbo d’ansia.

    Come si manifesta?

    I disturbi d’ansia coinvolgono:

    • corpo: tachicardia, sudorazione, tremore, difficoltà respiratorie, tensione muscolare, disturbi gastrointestinali, insonnia, affaticamento;

    • mente: preoccupazione costante, pensieri catastrofici, difficoltà di concentrazione, irritabilità, senso di essere “al limite”;

    • comportamenti: evitamento, fuga, blocco o irrigidimento di fronte a situazioni percepite come minacciose.

    Tipi principali

    Esistono diverse forme, tra cui ansia da separazione, fobie specifiche, fobia sociale e attacchi di panico. Ogni forma ha caratteristiche proprie e va valutata in modo specifico.

    Cosa prova chi soffre d’ansia?

    Chi vive un disturbo d’ansia può sentirsi confuso, disorientato e concentrarsi su paure dominanti (abbandono, perdita di controllo, malattia, morte). Spesso compaiono strategie di evitamento che restringono lentamente la vita sociale, lavorativa e relazionale. A livello emotivo l’ansia può assumere sfumature diverse (paura di rifiuto o annichilimento, sensazione di essere travolti) e si esprime molto anche nel corpo.

    Diagnosi e cura

    La diagnosi deve essere fatta da uno specialista, distinguendo l’ansia psicologica da cause mediche o da altri disturbi. Può comparire a qualunque età, spesso inizia nell’infanzia e può persistere se non trattata. È più frequente nelle donne.

    La psicoterapia aiuta sia a ridurre i sintomi sia a comprenderne le origini, integrando aspetti emotivi e cognitivi, aumentando il senso di controllo e prevenendo ricadute future.

  • Gli attacchi di panico sono episodi improvvisi di paura intensa e senso di pericolo che raggiungono rapidamente un picco, causando un forte disagio fisico e psicologico e interferendo con la vita quotidiana. Possono comparire anche in situazioni normali (al supermercato, in treno, a lezione) e dare la sensazione di “morire”, “impazzire” o perdere il controllo.

    Come si manifestano?

    Per parlare di attacco di panico devono comparire in modo acuto alcuni sintomi psicofisici, tra cui: palpitazioni, difficoltà a respirare, sudorazione, tremori, nausea o dolore addominale, dolore al petto, brividi o vampate, stordimento, parestesie, derealizzazione o depersonalizzazione, paura di morire o di impazzire. Un attacco dura in genere pochi minuti (di solito non oltre 20–30 minuti) e poi si risolve spontaneamente.

    Cosa prova chi li vive?

    Il vissuto è spesso di terrore improvviso, impotenza e minaccia alla propria integrità fisica o mentale. Dopo l’attacco si può rimanere stanchi, confusi o disorientati. Frequentemente compare la “paura della paura”: la preoccupazione costante di avere nuovi attacchi, che porta a uno stato di allerta continuo.

    Perché limitano la vita?

    Per evitare nuove crisi, molte persone sviluppano comportamenti di evitamento (non uscire soli, evitare luoghi affollati o lontani da casa). Queste strategie danno un sollievo momentaneo ma, nel tempo, rafforzano l’ansia e restringono la vita sociale, lavorativa e personale.

    Diagnosi e cura

    All’inizio gli attacchi vengono spesso scambiati per problemi fisici (per esempio cardiaci) e portano a molte visite mediche prima di arrivare alla diagnosi corretta. È importante una valutazione specialistica, dopo aver escluso cause organiche.

    La psicoterapia è efficace perché lavora non solo sul sintomo, ma sulle radici dell’ansia e dei vissuti che lo alimentano, favorendo un recupero di controllo interno e un cambiamento più stabile. In alcuni casi può essere utile anche un supporto farmacologico, deciso dal clinico, per ridurre la sintomatologia troppo invalidante.

  • Le fobie sono paure intense ed eccessive legate a oggetti o situazioni specifiche (es. animali, altezze, sangue, volare, spazi aperti o chiusi). La reazione è sproporzionata rispetto al pericolo reale e si accompagna a forte attivazione fisica (tachicardia, respiro corto, tremore, sudorazione, nausea), ansia fino al panico e comportamenti di evitamento o fuga.

    Come si manifestano?

    La paura compare in modo immediato quando la persona entra in contatto con lo stimolo fobico e tende a ripetersi ogni volta. L’intensità può crescere con la vicinanza allo stimolo e può essere presente anche ansia anticipatoria (paura già al pensiero di esporsi). Le fobie possono essere singole (fobie specifiche) o multiple.

    Tra le forme più comuni:

    • agorafobia (paura di luoghi da cui sembra difficile scappare o ricevere aiuto),

    • claustrofobia (paura di spazi chiusi/angusti),

    • fobia sociale (paura di giudizio o umiliazione),

    • zoofobie (paura degli animali, es. cani, ragni, serpenti).

    Cosa vive chi ha una fobia?

    Quando è esposto allo stimolo, chi soffre di fobia prova un’ansia incontrollabile e l’urgenza di evitare o allontanarsi. In quel momento il pensiero razionale si riduce e il pericolo viene sovrastimato. L’evitamento dà sollievo sul momento, ma nel tempo restringe la libertà personale e può incidere su lavoro, relazioni e vita sociale.

    Diagnosi e cura

    La diagnosi valuta tipo di fobia, durata, intensità, presenza di più fobie e impatto sulla vita quotidiana. Alcune paure transitorie (specie nell’infanzia) possono essere normali; quando invece persistono e limitano la vita, si parla di disturbo fobico.

    La psicoterapia è efficace: gli approcci basati sull’esposizione riducono i sintomi, mentre un percorso psicoterapeutico più profondo permette anche di comprendere il significato della fobia, integrare le emozioni sottostanti, ridurre l’evitamento e diminuire il rischio di ricadute o spostamento su nuove paure.

  • Il Disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e/o compulsioni.
    Le ossessioni sono pensieri, immagini o impulsi ricorrenti e intrusivi, vissuti come indesiderati e difficili da controllare. Le compulsioni sono invece rituali o azioni ripetitive (anche mentali, come contare) che la persona si sente obbligata a compiere per ridurre l’ansia o “neutralizzare” le ossessioni.

    Come si manifesta?

    Il disturbo si presenta con ansia intensa, che cresce a causa delle ossessioni e si attenua solo temporaneamente tramite le compulsioni. I contenuti possono variare: paura di contaminazione, pensieri aggressivi o sessuali, dubbi continui, bisogno di ordine, simmetria, controllo, lavaggi ripetuti, o rituali legati al corpo (es. tirarsi i capelli). Spesso sono presenti perfezionismo, intolleranza all’incertezza e senso di responsabilità eccessivo.

    Cosa vive chi ne soffre?

    La persona sperimenta pensieri o immagini improvvise e destabilizzanti, con il bisogno urgente di “metterle a tacere” tramite rituali. Il sollievo è breve, e il ciclo ossessione-compulsione si ripete, occupando molto tempo e limitando vita quotidiana, lavoro e relazioni. L’emotività può risultare bloccata o tenuta sotto controllo attraverso razionalizzazione e iper-controllo mentale.

    Diagnosi e cura

    La diagnosi valuta presenza e gravità di ossessioni/compulsioni, impatto sulla vita, rigidità delle difese e angosce sottostanti. La psicoterapia è efficace perché aiuta a comprendere e ridurre i sintomi lavorando sulle radici dell’ansia e sui conflitti emotivi (spesso legati a rabbia e colpa), favorendo un’integrazione più profonda e cambiamenti duraturi.

  • Il termine “trauma” significa ferita e descrive un evento che produce una rottura profonda nella vita della persona. Segna un “prima” e un “dopo”, interrompe il senso di continuità dell’esperienza e può modificare il modo in cui ci si percepisce, si vive il tempo e si sta nel mondo. Quando questa frattura non viene elaborata, possono comparire effetti psicologici importanti.

    Principali disturbi correlati a trauma (DSM-5-TR)

    • Disturbo acuto da stress: compare entro pochi giorni dall’evento traumatico e dura fino a un mese. Include ricordi intrusivi, flashback, umore negativo, evitamento, sintomi dissociativi e iperattivazione. Se persiste oltre un mese può evolvere in PTSD.

    • Disturbo dell’adattamento: nasce entro 3 mesi da un evento stressante e si risolve di norma entro 6 mesi dalla fine dello stressor. Si manifesta con ansia, umore depresso, preoccupazione e difficoltà nel funzionamento quotidiano.

    • PTSD (disturbo post-traumatico da stress): segue eventi che hanno minacciato gravemente la propria o altrui sicurezza. Comporta sintomi intrusivi, evitamento, alterazioni dell’umore e iperattivazione, con forte impatto sulla vita quotidiana.

    • Disturbo da lutto prolungato: quando il lutto supera per durata e intensità i tempi fisiologici (oltre 12 mesi), con sofferenza persistente, nostalgia, vuoto, distacco e compromissione del funzionamento.

    Diagnosi e psicoterapia

    La risposta al trauma è soggettiva: per questo serve una valutazione clinica accurata secondo i criteri diagnostici. La psicoterapia è centrale perché aiuta a ricostruire la continuità interrotta, ristabilire un senso di Sé sicuro, riattivare risorse e dare significato all’esperienza traumatica, aprendo la possibilità di un futuro “dopo” più integrato e vivibile.

  • La personalità è l’insieme stabile di modi di pensare, sentire e comportarsi che caratterizza lo stile di vita e l’adattamento di una persona; nasce dall’intreccio tra fattori biologici, sviluppo ed esperienze sociali.

    Un disturbo di personalità è invece un modello rigido e duraturo di esperienze interne e comportamenti che risulta molto diverso da ciò che la cultura di appartenenza considera “normale”. Questo modello è pervasivo (presente in molti contesti), inflessibile, compare già in adolescenza o prima età adulta, resta stabile nel tempo e provoca sofferenza o difficoltà importanti nel funzionamento quotidiano. Può coinvolgere pensiero, emozioni, controllo degli impulsi e relazioni.

    Classificazione (DSM-5)

    I disturbi di personalità sono raggruppati in tre cluster:

    • Cluster A (eccentrico/bizzarro)

      • paranoide

      • schizoide

      • schizotipico

    • Cluster B (drammatico/impulsivo)

      • borderline

      • narcisistico

      • istrionico

      • antisociale

    • Cluster C (ansioso/insicuro)

      • evitante

      • dipendente

      • ossessivo-compulsivo di personalità

    Diagnosi e intervento

    La diagnosi richiede di valutare persistenza e stabilità nel tempo dei tratti, distinguendoli da reazioni temporanee legate a stress o crisi. Dopo la diagnosi si costruisce un piano terapeutico mirato: spesso la psicoterapia è centrale, e in alcuni casi può essere affiancata da un supporto farmacologico.

  • La dipendenza affettiva è una “new addiction”, cioè una dipendenza comportamentale simile per meccanismi a quelle da gioco, internet o lavoro: non riguarda una sostanza, ma una relazione. Si manifesta con bisogno compulsivo dell’altro, forte ansia o “astinenza” quando non lo si ha vicino.

    Quando una relazione diventa dipendenza?

    Nelle fasi iniziali di coppia è normale vivere un periodo di forte esclusività. Diventa dipendenza quando questa esclusività è rigida, continua e obbligatoria, provoca sofferenza e la persona sente di non poter esistere senza l’altro.

    Caratteristiche principali

    • Mancanza di reciprocità: il dipendente dà tutto, spesso a un partner sfuggente o problematico.

    • Bisogno al posto del desiderio: non prevale il piacere dell’incontro, ma l’urgenza compulsiva di vicinanza (craving).

    • Paura dell’abbandono costante, vissuta come minaccia alla propria identità.

    • Bassa autostima, controllo, gelosia, isolamento dalle altre relazioni.
      Esistono vari profili di dipendenza affettiva, quindi la valutazione va sempre personalizzata.

    Origini

    Le radici sono spesso nelle prime esperienze di attaccamento: relazioni infantili insicure, vissuti di rifiuto o trascuratezza emotiva e la convinzione di non essere degni d’amore. In età adulta queste ferite possono riattivarsi nella coppia, alimentando bisogno di controllo e ripetizione di schemi dolorosi.

    Trattamento

    La psicoterapia aiuta a:

    • ridurre la sofferenza e il ritiro sociale,

    • rafforzare autostima e autonomia,

    • comprendere le origini della dipendenza,

    • distinguere desiderio sano da bisogno obbligatorio,

    • prevenire ricadute e ripetizione di relazioni dipendenti.

  • La psicoterapia è utile quando il dolore per una perdita diventa troppo intenso, duraturo o bloccante. Aiuta a dare spazio alle emozioni, comprendere le proprie reazioni, gestire pensieri intrusivi e stress psicofisico, e trovare gradualmente un nuovo equilibrio senza cancellare il legame con la persona perduta.

    Quando può essere utile chiedere aiuto?

    È consigliabile rivolgersi a uno psicoterapeuta se:

    1. A distanza di tempo persistono sintomi che interferiscono con la vita (angoscia, apatia, insonnia, alterazioni dell’appetito, pensieri intrusivi).

    2. Il lutto è legato a una morte traumatica, violenta o improvvisa.

    3. Erano presenti precedenti difficoltà psicologiche non risolte.

    4. Manca una rete di sostegno (isolamento, poche relazioni positive).

    5. La perdita è accompagnata da altri eventi stressanti nello stesso periodo.

    Cos’è il lutto?

    Il lutto non riguarda solo la morte: include anche perdite come separazioni, abbandoni, perdita del lavoro, fallimenti o chiusura di prospettive importanti. È un’esperienza che mette in crisi identità, significati e senso di continuità personale.

    Quanto dura e quali sono le fasi?

    La durata è molto soggettiva, ma spesso un miglioramento fisiologico avviene entro 12–18 mesi. Le fasi non sono lineari e possono sovrapporsi o alternarsi. Tra i modelli più noti:

    • shock/incredulità → dolore acuto → risoluzione (Lindemann)

    • disperazione → struggimento → disorganizzazione → riorganizzazione (Bowlby)

    • negazione → rabbia → contrattazione → depressione → accettazione (Kübler-Ross)

    Perché è così difficile elaborarlo?

    Nel lutto possono convivere spinte opposte: il desiderio di andare avanti e, insieme, la paura o il senso di colpa di “tradire” chi non c’è più. Questa ambivalenza è normale e fa parte del processo.

    Cosa può offrire la psicoterapia?

    • sostegno emotivo e contenimento del dolore

    • ricostruzione del senso di continuità e identità

    • elaborazione della perdita e dei vissuti di colpa/rabbia

    • riattivazione di risorse e relazioni

    • prevenzione del blocco o del lutto complicato

    Gruppi e EMDR

    • Gruppi terapeutici: aiutano a non isolarsi, condividere dolore e sentirsi compresi da chi vive esperienze simili.

    • EMDR: metodo efficace nei lutti complessi o traumatici; aiuta a rielaborare i ricordi dolorosi riducendone l’impatto emotivo, senza “dimenticare” la persona amata.

  • L’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing, cioè Desensibilizzazione e Rielaborazione tramite Movimenti Oculari) è un metodo psicoterapeutico strutturato nato per trattare i ricordi traumatici e gli effetti che questi lasciano su emozioni, corpo e pensieri. Si basa sul modello dell’“elaborazione adattiva dell’informazione”: quando un evento è troppo intenso, può restare “bloccato” nella memoria con la sua carica emotiva originale; l’EMDR aiuta il cervello a rielaborarlo in modo più integrato e meno disturbante.

    Come funziona, in breve
    Durante le sedute, il/la terapeuta guida la persona a richiamare il ricordo difficile (o le sensazioni/immagini collegate) mentre avviene una stimolazione bilaterale alternata, di solito con movimenti oculari, ma anche con tapping o suoni. Questa procedura facilita la desensibilizzazione emotiva del ricordo e la costruzione di significati più realistici e sostenivi (“oggi è finita”, “ora sono al sicuro”).

    A cosa serve / quando è indicata
    È particolarmente efficace per i disturbi legati a traumi singoli o ripetuti, soprattutto il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Le linee guida internazionali la riconoscono come trattamento evidence-based per il PTSD, insieme alla CBT focalizzata sul trauma.
    Oltre al PTSD, viene usata anche quando ci sono sintomi collegati a esperienze dolorose o stressanti, come lutti complessi, incidenti, violenze, abusi, eventi medici traumatici, ma anche ansia, attacchi di panico o blocchi emotivi legati a ricordi specifici (sempre dopo valutazione clinica).

    Obiettivo terapeutico
    Non è “cancellare” il ricordo, ma renderlo meno intrusivo e più tollerabile, così che smetta di attivare reazioni emotive e corporee sproporzionate nel presente. In altre parole: l’evento resta nella storia di vita, ma non continua a far male come se stesse accadendo ora.

  • Il mobbing è una forma di violenza psicologica sul lavoro: una serie di comportamenti ostili, ripetuti e prolungati nel tempo, messi in atto da superiori o colleghi, con l’effetto (o l’obiettivo) di umiliare, isolare, svalutare o spingere fuori un lavoratore. Non è quindi un singolo episodio di litigio o tensione, ma un’azione sistematica che mina dignità e salute.

    Elementi tipici del mobbing (secondo la giurisprudenza italiana)

    In Italia non esiste una legge “unica” sul mobbing, ma la Cassazione ha definito criteri abbastanza chiari. In genere servono:

    1. Condotte vessatorie (es. offese, screditamento, esclusione, demansionamento, controlli eccessivi).

    2. Ripetizione e durata nel tempo (settimane/mesi).

    3. Intento persecutorio o effetto di emarginazione: un disegno unitario che rende il clima ostile.

    4. Danno alla salute/dignità o alla vita lavorativa/relazionale della vittima.

    5. Nesso causale tra condotte e danno subito.

    Esempi di comportamenti di mobbing

    • Critiche costanti e denigratorie, anche davanti ad altri.

    • Isolamento intenzionale: esclusione da riunioni, informazioni, gruppi.

    • Demansionamento o incarichi inutili/umilianti, oppure carichi ingestibili.

    • Minacce sottili, pressioni per dimettersi, sabotaggio del lavoro.

    • Diffusione di voci, ridicolizzazione, attacchi personali.

    Mobbing, straining e conflitto: differenze rapide

    • Conflitto lavorativo: scontro anche duro, ma non sistematico né persecutorio.

    • Straining: singole azioni o situazioni stressanti non continuative, ma comunque lesive.

    • Mobbing: strategia ripetuta e organizzata di persecuzione/emarginazione.

    Perché è importante riconoscerlo

    Perché può portare a ansia, depressione, disturbi psicosomatici, calo dell’autostima e performance lavorativa, fino all’uscita dal lavoro. A livello UE è considerato un rischio serio per la salute occupazionale.

  • Lo psicoterapeuta può aiutare in modo molto concreto su più livelli.

    1) Prima di tutto: dare un nome a ciò che stai vivendo

    Chi subisce mobbing spesso oscilla tra confusione, colpa e dubbio (“forse esagero”, “forse me lo merito”). In terapia si ricostruisce la storia degli episodi, la loro frequenza, il contesto e l’impatto su di te, distinguendo conflitti lavorativi normali da condotte vessatorie sistematiche e persecutorie. Questo serve sia per capire cosa sta succedendo, sia per ridurre l’auto-colpevolizzazione.

    2) Contenere e trattare i sintomi (ansia, depressione, stress, somatizzazioni)

    Il mobbing può portare a sintomi importanti: ansia costante, attacchi di panico, umore depresso, insonnia, irritabilità, difficoltà di concentrazione, disturbi psicosomatici. La psicoterapia è indicata proprio per il trattamento delle reazioni da stress, disturbo dell’adattamento o PTSD legati al mobbing; quando serve, lo psicoterapeuta può lavorare in integrazione con lo psichiatra per un supporto farmacologico mirato.

    3) Ricostruire autostima e identità professionale

    Il mobbing colpisce spesso il senso di valore personale (“non valgo”, “sono incapace”) e l’immagine di sé come lavoratore. In terapia si lavora per:

    • separare la tua identità dalle etichette ricevute sul lavoro,

    • recuperare competenze, risorse e fiducia,

    • ridurre vergogna e senso di impotenza.
      Questo è un pezzo chiave per non restare “intrappolati” psicologicamente nella situazione.

    4) Recuperare capacità di scelta e strategie di tutela

    Quando si è sotto pressione continua, è facile sentirsi paralizzati. La terapia aiuta a:

    • chiarire cosa vuoi e cosa ti fa bene (restare, cambiare ruolo, cambiare ambiente, denunciare, ecc.),

    • valutare rischi e opportunità realistiche,

    • allenare assertività, confini, gestione delle relazioni tossiche,

    • costruire un piano d’azione passo-passo.
      Non è “solo parlare”: è riprendere in mano la direzione.

    5) Aiutarti a documentare l’impatto psicologico (se serve anche sul piano legale)

    Se la persona decide di tutelarsi legalmente, una valutazione clinica può essere utile per attestare il nesso tra condotte subite e danno psicologico. La giurisprudenza richiede prove su sistematicità, durata, intento persecutorio e danno: la documentazione clinica può affiancarsi ad email, testimonianze, certificati medici.
    (Ovviamente lo psicoterapeuta non fa l’avvocato, ma può contribuire sul lato sanitario/clinico.)

    6) Prevenire ricadute e “trascinamenti” nel tempo

    Anche quando la situazione lavorativa cambia, possono restare ipervigilanza, sfiducia, paura del giudizio, evitamento di contesti simili. La terapia serve a elaborare l’esperienza, integrare quello che hai vissuto e ridurre il rischio che il trauma lavorativo continui a condizionare lavoro, relazioni e autostima.